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Difesa: il significato strategico e politico

  • Andrea Sturaro
  • 4 ott 2019
  • Tempo di lettura: 10 min

Il ministro della Difesa Elisabetta Trenta definisce le Forze Armate con due parole chiave: “dual use” e “resilienza”. Con duplice uso si riferisce alla capacità degli operatori a svolgere compiti sia civili che militari, nonché all’impiego di tecnologie e sistemi militari ad uso civile. Lo strumento militare, secondo il ministro, sarà sempre più presente a sostegno delle autorità civili in caso di disastri naturali o antropici, ad esempio in caso di terremoti o alluvioni, e inoltre per il presidio del territorio nazionale in funzione di contrasto alla criminalità e al terrorismo. Ne consegue che gli armamenti e gli equipaggiamenti per le Forze Armate dovrebbero essere designati e costruiti in funzione del loro duplice uso, determinando da un lato un risparmio economico, dall’altro una prontezza operativa in caso di emergenze di varia natura. Il ministro tende quindi verso l’idea di “sicurezza collettiva” della società italiana, prendendo in considerazione non tanto i conflitti armati con altri Stati, ma tutto il contesto di “sicurezza” che può coinvolgere lo Stato italiano, in campo cibernetico, nella questione delle migrazioni di massa e crisi umanitarie, dell’estremismo e del terrorismo internazionale. Di fronte a queste minacce lo strumento militare non può agire solo, ma deve essere integrato alla società, avere il suo appoggio ed agire secondo un approccio collegiale più ampio, che coinvolge anche le autorità pubbliche ed i soggetti privati rilevanti, a partire dai gestori delle infrastrutture critiche fino al settore privato, all’università e al mondo della ricerca (Marrone, 2018).

La specificità delle Forze Armate, continua Marrone, è ancora più importante in un periodo storico in cui sia la NATO che l’Unione Europea puntano maggiormente sullo strumento militare ai fini sia della difesa dell’Europa sia della stabilizzazione dei paesi limitrofi, da cui provengono buona parte dei rischi e delle minacce per la sicurezza degli stati membri. Secondo il Ministro, non è da sottovalutare la tradizionale politica di difesa italiana impegnata a coniugare gli interessi nazionali con il quadro europeo e transatlantico. La NATO è infatti il punto di riferimento per garantire un’adeguata tranquillità in termini di sicurezza all’intera regione euro-atlantica, e il ministero continuerà a promuovere tutte le iniziative volte a mantenere e a consolidare questi rapporti internazionali.

A tal proposito, è doveroso citare il generale Carlo Jean, che nel suo articolo sulla rivista “liMes” del 9 marzo 2019, scrive: “Non finiamo di distruggere le nostre Forze Armate perché potrebbero servirci”[1]. Secondo il generale, la NATO non è eterna e queste alleanze non ci “proteggeranno” per sempre. Un investimento troppo direzionato al sistema dual use finisce per smilitarizzare l’Esercito, rendendolo competente solamente in operazioni di polizia o prettamente civili, perdendo di vista lo scopo principale e tradizionale dello strumento militare.

Ma a proposito di investimenti, come vengono gestiti i fondi statali destinati alla sicurezza nazionale? Di seguito la stima delle spese militari italiane valutate secondo la metodologia dell’Osservatorio Mil€x (www.milex.org):

Dalla tabella vediamo che la spesa militare italiana per il 2018 ammonta circa a 25 miliardi di euro, l’1,4% del Pil, con un aumento del 4% rispetto al 2017; si tratta di cifre considerevoli che giustamente attirano l’attenzione dell’opinione pubblica. Nel 2018, infatti, crescono anche il bilancio del Ministero della Difesa (21 miliardi, il 3,4% in più rispetto al 2017) e i contributi del Ministero dello Sviluppo Economico all’acquisto di nuovi armamenti (3,5 miliardi di cui 427 milioni di costo mutui, ossia il 115% in più nelle ultime tre legislature). A rivelarlo è il Rapporto MIL€X 2018, a cura di Enrico Piovesana, cofondatore dell’osservatorio sulle spese militari italiane e di Francesco Vignarca della Rete italiana per il Disarmo (Gaita, 2018).

Anche gli accordi internazionali hanno un costo; infatti l’essere membri della Nato costa circa 192 milioni di euro, di cui 125 milioni destinati al budget Nato e 66,6 milioni destinati agli investimenti infrastrutturali. La garanzia di una sicurezza a livello europeo e transatlantico richiede un impegno economico non indifferente: la Nato infatti richiede il 2% del Pil per gli accordi stipulati. Chiaramente l’Italia ha difficoltà a sostenere queste spese militari, necessarie però a mantenere un certo prestigio internazionale.

Secondo le statistiche di Money[2] l’Italia è da sempre fra i Paesi Nato che spendono di meno per la difesa. Le cause sono da ricondurre ad una scarsa cultura della difesa e della sicurezza nel nostro paese, vale a dire che c’è la necessità di avvicinarsi maggiormente ai cittadini attraverso una comunicazione istituzionale strategica.

Il consigliere scientifico dell’Istituto Affari Internazionali, Michele Nones, fa risalire le cause della disinformazione alla Guerra Fredda, allorché una parte significativa della nostra opinione pubblica era convinta che la reciproca deterrenza fra Nato e Patto di Varsavia, insieme alla protezione dal nucleare americana, avesse definitivamente allontanato rischi e minacce nei nostri confronti. In seguito, l’implosione dell’Urss e delle sue alleanze ha continuato a favorire questo atteggiamento, alimentato anche dall’area pacifista, molto radicata nel mondo cattolico e in quello della ‘sinistra’, oltre che in quello sindacale.

È solo con l’attacco terroristico dell’11 settembre 2001 e con l’intervento in Afghanistan che è un po’ cresciuta la consapevolezza che la nostra sicurezza non era scontata e che per tutelarla bisognava impegnarsi insieme ai nostri alleati per stabilizzare le aree di crisi dove si organizzava il terrorismo islamico e, nello stesso tempo, rafforzare le nostre capacità di difesa e sicurezza, rendendo più efficienti le nostre Forze Armate. Ma questo non ci ha portato ad accettare che bisogna puntare ad allinearsi con i nostri partner investendo maggiori risorse finanziarie e riformando radicalmente lo strumento militare.

Per avere una gestione più efficiente degli investimenti – continua Nunes – ci sono due possibili soluzioni: ridurre la percentuale di costo attribuita al personale delle Forze Armate oppure incrementare la spesa generale per il comparto Difesa e Sicurezza. Vista l’impossibilità a realizzare il secondo obbiettivo, Nunes consiglia di avere un comparto meno numeroso ma più efficiente, quindi meno militari ma più addestrati.

Cosa ne pensano i cittadini italiani a proposito?

L’EURISPES a gennaio 2019 ha pubblicato un rapporto relativo alla fiducia dei cittadini nelle Forze Armate. Secondo quanto è emerso dall’indagine, i giudizi positivi continuano a convergere su Forze di polizia, Difesa, Intelligence, Volontariato e Protezione civile:

L’Arma dei Carabinieri raccoglie il 69,4% dei consensi nel 2018 (+10,8% rispetto al 2017), la Polizia di Stato il 66,7% (rispetto al 61,1% del 2017), la Guardia di Finanza il 68,5% (+8,6%). Aumenta anche il dato della Polizia penitenziaria (66,3; +15,4% di fiduciosi). Da questa edizione del Rapporto Italia entra a far parte della rilevazione il Corpo dei Vigili del Fuoco, che conquista subito una posizione altissima nella graduatoria della fiducia (86,6%). L’Esercito Italiano passa dal 59,6% delle indicazioni di fiducia nel 2017 al 70,4% nel 2018, in maniera simile in termini di crescita si assestano i valori dell’Aereonautica (dal 61,4% del 2017 al 72,9% del 2018) e della Marina Militare (dal 62,1% al 72,1%). L’Intelligence raccoglie nel 2018 il 65,4% dei consensi (Eurispes, 2019)

Dal confronto con i dati dello scorso anno la fiducia nei confronti dell’istituzione è in ascesa. In particolare le nostre Forze Armate sono un elemento di forza del Sistema Paese ricevendo tutte oltre il 70% dei consensi: Esercito Italiano, Aeronautica, Marina Militare e Arma dei Carabinieri, in sintesi sono apprezzate almeno 7 italiani su 10.

Anche il ruolo dell’Italia nella NATO, nell’Unione Europea e nelle Coalizioni cui aderisce è apprezzato. Viene rivalutato il ruolo delle Forze Armate nelle missioni internazionali attraverso la consapevolezza di un effettivo riscontro positivo per tutta la Nazione. Condiviso anche il ruolo dual use e gli investimenti in ambito di ricerca con le Università italiane, nonché l’attenzione verso un Esercito “sostenibile”.

Alcune rilevazioni analoghe, effettuate dal dipartimento Società e Politica di Gfk – Eurisko nel 2004 e nel 2006, testimoniano il consenso degli italiani dell’impiego delle Forze Armate in operazioni civili, per l’aiuto del paese e nella partecipazione a missioni internazionali (Eurisko, 2007).

Le analisi promosse nel corso degli anni confermano il consenso dell’opinione pubblica per le scelte politico/strategiche messe in atto dalla Difesa. La maggioranza degli Italiani esprime un giudizio positivo nei confronti delle Forze Armate, trovandosi in accordo anche sui compiti assegnati allo strumento militare.

Ma quali sono le opinioni contrarie? I dubbi più frequenti sono rivolti agli investimenti sugli armamenti; in particolare si sospetta che i vertici militari facciano prevalere i propri interessi su quelli della collettività. Il giornalista Enrico Piovesana in un articolo di MIL€X[3] sostiene che “una democrazia è in pericolo se non riesce a controllare l’influenza, sia palese che occulta, della macchina industriale e militare di difesa, correndo il rischio di finire con l’esserne controllata” (Piovesana, 2017). Un sospetto che fa pensare ad una mancanza di trasparenza nella comunicazione delle spese militari, o ad un occultamento volontario. Nel 2015, infatti, in una indagine della Commissione della Difesa è emerso che l’assenza di un organismo di controllo sulla qualità degli investimenti ne circoscrive le valutazioni all’interno di un circuito chiuso rappresentato dai vertici industriali e dai vertici militari. L’autoreferenzialità è accentuata dal fenomeno ricorrente costituito dalla presenza di figure apicali del mondo militare che vanno ad assumere posizioni di rilievo al vertice delle industrie della Difesa (D.D.L, 217/2014 ).

Con questa dichiarazione non si vuole accusare l’apparato industriale militare, che rimane una componente sana di una democrazia fintantoché produce e vende alle Forze Armate dello Stato lo stretto necessario per mantenere un adeguato livello di prontezza ed efficienza dello strumento di difesa nazionale nonché una buona immagine e credibilità del sistema Paese. Ciò che si vuole evitare è la nascita di una lobby militare-industriale in grado di influenzare le decisioni istituzionali, di sorvolare sui controlli e avere un eccessivo potere di decisionale, provocando una pericolosa distorsione del potere democratico.

In Italia questa distorsione rimase fino al “lodo Scanu”[4] presente nella Riforma Di Paola delle Forze Armate del 2012, che ha attribuito alle commissioni Difesa un maggior potere, introducendo la possibilità di bloccare un programma di acquisizione se giudicato incoerente con la panificazione pluriennale del Ministero già approvata dal Parlamento. Questa riforma, nel 2013, creò una forte polemica nel mondo dell’industria militare e dai vertici della Difesa, al punto che il Consiglio Supremo di Difesa allora presieduto da Giorgio Napolitano emise una nota ufficiale in cui si ammoniva il Parlamento a non porre veti al governo su questa materia. (RQuotidiano, 2013). Successivamente sono state presentate in Parlamento due proposte di legge: la legge Bolognesi[5] per introdurre maggiori controlli sul procurement [6]militare con la creazione di un’autorità per la vigilanza sull’acquisizione dei sistemi d’arma, analoga al GAO statunitense[7]; e la legge Galli[8] per limitare il potere della lobby militare-industriale, cioè vietando alle aziende del comparto difesa di assumere generali in pensione come consulenti. Entrambi le proposte di legge, presentate nel 2013 e 2014, aspettano ancora di essere prese in esame (Piovesana, 2017).

Ulteriori sospetti provengono proprio dal mondo della comunicazione/informazione la quale viene accusata di far leva sugli argomenti che più fanno presa sull’opinione pubblica, spesso servendosi di fatti di cronaca che creano paura, scalpore e indignazione: la lotta al terrorismo dopo un attentato dell’Isis, il controllo dell’immigrazione dopo l’affondamento di un barcone nel Mediterraneo, il contrasto alla criminalità dopo un grave fatto di cronaca nera. Tutte argomentazioni che aumentano la percezione di pericolo e che giustificano indirettamente le spese militari.

Un articolo pubblicato sul portale web della Guardia Costiera di Genova “Capitaneria e la guerra con la Marina” [9]evidenzia l’inutilità dell’uso di navi da guerra della Marina per soccorrere i profughi nel mediterraneo o per contrastare i flussi migratori. L’impiego della Marina Militare e dei suoi strumenti inopportuni e costosi, a discapito del servizio offerto della Guardia Costiera, sembra essere solamente un “esibizionismo mediatico”, un modo per giustificare lo strumento militare e i suoi investimenti.

Un ulteriore critica nei confronti delle Forze Armate proviene dal Sindacato Italiano Unitario Lavoratori Polizia, il quale commenta l’impiego delle forze armate sul territorio nazionale in funzione di contrasto della criminalità (esempio, l’operazione “Strade Sicure”). I due sindacati SILUP e SAP, presidiati dai segretari generali Felice Romano e Nicola Tanzi, sostengono “l’impiego delle pattuglie miste che va avanti da quasi due anni ha scopi puramente di immagine, in qualche caso può migliorare la percezione di sicurezza dei cittadini, ma non migliora la sicurezza reale. Soltanto le forze di polizia possono garantire indagini ed arresti, prevenire e reprimere reati, assicurare l’ordine e la sicurezza pubblica. A nostro avviso, l’utilizzo dei militari, come avvenne con l’operazione ‘vespri siciliani’ negli anni novanta, doveva e deve essere vincolato soltanto alla vigilanza e al presidio degli obiettivi sensibili, per liberare poliziotti e carabinieri sul territorio. Invece, per esigenze di visibilita’ e di immagine, si è preferito puntare su pattuglie che passeggiano in alcune zone di qualche città, accompagnate sempre da appartenenti alle forze dell’ordine che devono controllare il loro operato[10] (Romano & Tanzi, 2018).

Risulta dunque un investimento mal gestito quello dell’impiego dei militari nelle operazioni di sicurezza del territorio, risorse che investite opportunamente tra Carabinieri e Forze di Polizia possono avere risultati migliori in termini di sicurezza reale.

Le presenti critiche, che si riducono ad essere di natura politica, marcano l’esigenza di una comunicazione sempre più trasparente, accessibile e preparata a rispondere con professionalità e prontezza alle critiche di opinion leader e dell’opinione pubblica.

Le possibili critiche nei confronti delle Forze Armate sono da ricondurre, a mio avviso, a una scarsa informazione circa i complessi mutamenti del concetto di “guerra” e della conseguente riforma delle Forze Armate: obbiettivi, ruoli, minacce, tutto diverso rispetto al passato. Le nuove tecnologie ci proiettano in una guerra di informazioni, di immagine e di negoziazioni internazionali. Il Documento Programmatico Pluriennale per la Difesa per il triennio 2018-2020 spiega infatti che la capacità di inserirsi in contingenti multinazionali è indissolubilmente legata al possesso di un livello tecnologico dei mezzi, dei materiali e degli equipaggiamenti comparabile a quello delle altre Nazioni europee e NATO con cui viene condiviso l’assolvimento della missione: accordi internazionali che spesso prevedono l’uscita, la riduzione della partecipazione di un membro o penali per la ritardata messa in disponibilità dei finanziamenti previsti, in caso di mancato adempimento (D.P.P., 2018, p.110).

Tutti concetti affrontati marginalmente dalla comunicazione istituzionale della Difesa, la quale non informa dei seri rischi di “insolvenza” a livello internazionale, con ripercussioni a livello finanziario, qualora non si mantenga una certa immagine e una certa credibilità del sistema Paese. Con una maggiore consapevolezza di questi fattori si possono facilmente ridurre le critiche nei confronti degli investimenti militari, che occupano una percentuale significativa della spesa pubblica, ma che sono inevitabili per mantenere la sicurezza della Nazione.

[1] LiMes: Periodico mensile online che offre approfondimenti di carattere geopolitico sui principali fatti internazionali (Jean, NON FINIAMO DI DISTRUGGERE LE NOSTRE FORZE ARMATE PERCHÉ POTREBBERO SERVIRCI, 2019).


[2] Testata giornalistica verticale specializzata in economia, finanza, investimenti, mercati, norme, tributi, risparmio gestito, consulenza finanziaria e lavoro


[3] Osservatorio sulle Spese Militari Italiane: è un progetto lanciato per realizzare un Primo Rapporto Annuale sulle Spese Militari Italiane (pubblicato ad inizio 2017) che è servito come base per la creazione di un Osservatorio stabile sul tema (Piovesana & Vignarca, milex, s.d.)


[4] Dal nome del deputato Gian Piero Scanu, promotore del comma 2 dell’articolo 4 della Riforma Di Paola (L. 244/2012)


[5] Dal nome del deputato Paolo Bolognesi, primo firmatario della proposta di legge (D.D.L., 66/2010)


[6] Acquisti strategici di aziende o istituzioni


[7] Government Accountability Office: sezione investigativa del Congresso degli Stati Uniti d’America che monitora e sottopone al vaglio come il governo spende i soldi dei contribuenti americani.


[8] Dal nome del deputato Carlo Galli, primo firmatario della proposta di legge (D.D.L., 2284/2012)


[9] Guardiacostiera.gov.it: sito web ufficiale della Guardia Costiera, sezione Stampa/News.


[10] SILUP: Sindacato Italiano Unitario Lavoratori Polizia

 
 
 

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