Politica, guerra e Forze Armate
- Andrea Sturaro
- 4 ott 2019
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Il celebre assioma di Karl von Clausewitz “la guerra è la continuazione della politica con altri mezzi” (von Clausewitz, 1993, p.59) ha suscitato notevole interesse tra gli operatori militari, sia in Italia che all'estero (Mario Rino, 2013). Per l'autore, la guerra in quanto tale non è fine a sé stessa. Essa è invece un mezzo per raggiungere scopi politici. Ora, se lo studio del mezzo non può essere considerato senza tenere conto del suo fine, risulta evidente quanto la teoria della guerra debba essere affrontata anche nelle sue connessioni con il sistema politico-sociale e nei condizionamenti che da esso subisce (Col. Fancescon). Von Clausewitz (1993, p.42-43) prosegue affermando che:
“la guerra non è solo un atto della politica, ma un vero strumento della politica, un seguito del procedimento politico, una sua continuazione con altri mezzi. Quanto alla guerra rimane di proprio non si riferisce che alla natura particolare dei suoi mezzi. L'arte della guerra può esigere, in linea di massima, che le tendenze e i disegni della politica non vengano a trovarsi in contraddizione con tali mezzi e il comandante in capo deve esigerlo in ogni caso. Mai, qualunque sia la sua relazione con i disegni politici, essa può andare al di là di una semplice modificazione dei medesimi poiché il disegno politico è lo scopo, la guerra è il mezzo e un mezzo senza scopo non può concepirsi […] la guerra è dunque un atto di forza che ha per iscopo di costringere l'avversario a sottomettersi alla nostra volontà”
Ne deriva che il militare ha il dovere di comportarsi con autorità verso il basso e con responsabilità verso l'alto. Ai massimi vertici la responsabilità ultima è verso l'autorità politica che impiega lo strumento militare. Da ciò discende che la guerra sarebbe da considerarsi al servizio della politica e perciò, dato che dopo il suo scoppio la guerra diviene incontrollabile politicamente, essa va condotta in termini esclusivamente militari. Solo al termine delle operazioni belliche, e qualunque ne sia l'esito, la direzione politica potrà riprendere la sua naturale supremazia.
Dato che il suo impiego è prevalentemente estero e si può dire che la guerra sia un normale strumento della politica estera degli Stati, ecco quindi che l’apparato militare e la professionalità dei suoi operatori sono ancora oggi uno strumento a disposizione dei governi per dare credibilità alla politica di uno Stato, al fine di garantire la continuità contro eventuali minacce (Jean, Italiani e Forze Armate, 2010).
Un'altra visione della guerra, e indirettamente degli operatori che ne fanno parte, è soggettiva, e rimanda al profondo significato emotivo che la guerra comporta. Il connotato negativo che gli appartiene, fortemente legato al concetto di morte, rappresenta un tabù con il quale la maggior parte delle persone scelgono di non avere a che fare. Molti anni prima di Von Clausewitz, lo stratega cinese Sun Tzu aveva definito la guerra come un elemento essenziale per lo stato, una questione di vita o di morte, il degenero o la sopravvivenza, e che, come tale, doveva essere studiata compiutamente (Handel, Tzu, Clausewitz, & Jomini, 2000). Da una certa prospettiva, questa definizione suona anche come avvertimento, e lascia intendere la possibilità di un ricorso alla guerra. Trattandosi di uno strumento potenzialmente pericoloso, è ragionevole sostenere che, se non esistono le condizioni di estrema necessità, è preferibile adottare altri metodi.
Di conseguenza, la guerra non può essere utilizzata per controversie personali, ostilità politiche o quant’altro (Me, 2013). Ma se, come afferma Von Clausewiz, è la politica che ha generato la guerra, allora sorge spontaneo chiedersi “come”. La risposta sta nelle caratteristiche di ineludibilità e sistematicità del fenomeno. L’idea di usare come strumento politico le Forze Armate ha creato un lungo dibattito sulla violazione dei valori universalmente riconosciuti del bene e della giustizia. Ma nella sua analisi, Von Clausewitz, riprendendo parzialmente la teoria della Guerra Giusta di S. Agostino[1], precisa che lo scopo finale è quello di portare alla pace. Ecco che politica e guerra assumono il ruolo di garanti dell’ordine e della stabilità.
Nel mondo contemporaneo risulta in ogni caso difficile motivare l’esistenza e l’uso delle F.F.A.A., ma si tratta di un’iniziativa necessaria, ai fini del morale delle Forze Armate. Il sostegno dell’opinione pubblica è inderogabile, come lo è trovare una buona strategia di comunicazione. L’ammiraglio Mario Rino Me sottolinea, per giustificare l’utilizzo delle forze organizzate, che “al governo si associa ‘l’intelligenza personificata’, cui corrisponde il fine politico che deve mantenere una relazione di proporzionalità (calcolo) tra la finalità e attese di guadagno da una parte, e, dall’altra, lo sforzo militare. Probabilità e caso la rendono una attività creativa dello spirito dove giocano ‘talento, coraggio e carattere’. Il caso, o il fato all’antica maniera, può essere sorgente di buona o malasorte” (Me, 2013, p 47). Da ciò si evince, che “non si deve fare il primo passo, se non si considera anche l’ultimo” (Clausewitz, 1993, p 584). Questo principio rimanda ad un concetto di “consapevolezza”, intesa come calcolo tra guadagni e perdite. In altre parole, nessuno dovrebbe iniziare una guerra se non ha preventivamente individuato gli obbiettivi, analizzato le modalità e le conseguenze della propria azione. Il fine rispecchia l’aspetto politico, le modalità e le conseguenze, l’aspetto militare. È un dettaglio che rappresenta l’interdipendenza tra guerra e politica, definendo la struttura gerarchica militare. Ai vertici il compito di considerare e analizzare i fini politici, alla base strutturare e gestire i dettagli operativi.
[1] Teoria secondo il quale esiste una guerra “giusta”, ossia vincolata all’esigenza di far trionfare il bene sul male (Giannini, 2014)
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